
La settimana scorsa ho ricevuto una richiesta di collegamento su LinkedIn da parte di una persona che «crea contenuti virali». Alla mia domanda se già sapesse, o intuisse, se il contenuto sarebbe diventato virale, mi ha risposto: «non è che lo so già: lo creo io stesso».
Non penso di aver capito bene la risposta, ma ho pensato che fosse una cosa fichissima! [E ovviamente ho accettato la richiesta di collegamento: non si sa mai che possa carpirgli il segreto per creare un contenuto virale su YouTube o TikTok].
Evidentemente esistono delle regole e delle pratiche che, unite a un particolare talento e a una comprensione profonda dei social e dei relativi pubblici, possono essere applicate alla progettazione e realizzazione di un contenuto per farlo diventare virale.
Molto spesso, però, mi sembra che la viralità si sviluppi per puro culo, o comunque grazie a situazioni difficilmente prevedibili o progettabili a tavolino. Soprattutto se parliamo di contenuti artistici.
Consideriamo ad esempio la storia di «Harness Your Hopes», la canzone di questo video musicale, pubblicato nel marzo del 2022 in occasione della riedizione di un vecchio EP del 1999 dei Pavement*.
Stephen Malkmus, cantante e autore del pezzo, non lo ritenne degno di poter rientrare nella lista di brani di «Brighten the Corners», quarto album in studio della band californiana, pubblicato nel 1997.
[Venne pubblicato due anni dopo come b-side e poi nella versione extended dell’album].
Nel 2020, all’interno di una panetteria di Portland, Malkmus sente una canzone che gli ricorda qualcosa di già ascoltato e che in un primo momento confonde con «Tumbling Dice» dei Rolling Stones. E invece si tratta proprio di quella canzone scartata e sconosciuta a tanti fan, divenuta negli ultimi anni la traccia dei Pavement con più ascolti in streaming [quasi 135 milioni di ascolti oggi su Spotify, contro i 41 milioni di «Cut Your Hair», il loro più grande successo commerciale].
Gli ascolti di «Harness Your Hopes» iniziano ad aumentare, senza nessuna attività promozionale, nel 2017. Ai microfoni di Stereogum, Malkmus, dichiarandosi «non esperto di Spotify», dice di aver sentito che la canzone fosse stata inclusa in qualche playlist generica:
«one of those “Monday Moods” or whatever the f*ck they do».
In realtà nel 2017, con lo switch della funzione «autoplay» attivata automaticamente per 132 milioni di utenti, quella canzone iniziò ad essere messa «in coda» agli ascolti dall’algoritmo di Spotify, grazie alla sua capacità di suonare simile a tantissime altre canzoni [secondo il giudizio insindacabile dell’algoritmo alimentato dal machine learning].
Il secondo sviluppo della storia, altrettanto imprevedibile, riguarda una fit check challenge di TikTok che ha visto la creazione e pubblicazione di decine di migliaia di balletti in cui gli utenti cercavano di decodificare e rappresentare il testo surreal-demenziale composto e interpretato da Stephen Malkmus e i Pavement.

A quei balletti piuttosto irritanti (di una cringitudine clamorosa, almeno per me), si sono nel tempo aggiunti altrettanti video di ogni genere e categoria (tutorial, miniapprofondimenti, cover più o meno riuscite…) che hanno contribuito alla scoperta e al successo virale della canzone… e spero anche di quel gruppo che fa parte della mia triade di rock band preferite in assoluto.

Come dire… alla fine TikTok ha fatto anche cose buone.
* I Pavement, band indie rock fondata a Stockton (California) alla fine degli anni ’80, sono considerati insieme a Sebadoh, Guide by Voices, Dinosaur Jr. e il primo Beck, fra i nomi più influenti e seminali della scena «lo-fi» dei primi anni ’90: pionieri e punto di riferimento di quella «slacker culture» rappresentata oggi da artisti come Kurt Vile, Courtney Barnett e Parquet Courts.

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