Rodney Bingenheimer: influencer «di un certo livello».

Rodney and Elvis

Il «Sindaco» musicale.

Rodney Bingenheimer è un vecchio dj nato una settantina di anni fa a Mountain View, California. 
Non è tanto noto al grandissimo pubblico (io, nella mia ignoranza enciclopedica, l’ho scoperto per caso, grazie ad un documentario visto su Rai5), ma a Los Angeles era soprannominato «Major of the Sunset Strip».

Rodney Bingenheimer è stato uno dei personaggi più influenti della scena musicale americana, avendo contribuito al successo nel mercato americano di artisti e gruppi come David BowieSex PistolsBlondieJoan JettRamonesNirvana, ma anche Duran DuranBlur e Oasis.Duran DuranBlur e Oasis.

La sua biografia è strana almeno quanto la sua frangetta: la madre era una cameriera pazza, cacciatrice di autografi delle star, che un bel giorno, fresca di divorzio dal marito, abbandona il figlio di 16 anni a casa di una famosa attrice hollywoodiana, istruendolo su come fare per ottenerne l’autografo.
E lo lascia praticamente da solo a Los Angeles per sei anni.

Rodney and Debbie Harry

Rodney diventa il primo groupie uomo della storia («famous groupie, now respectable», secondo l’amico Mick Jagger), sempre imbucato alla festa giusta, al momento giusto, con le persone giuste: praticamente come Gianni Minà, ma con un gusto musicale un po’ più cool.

Come il quasi coetaneo Tony Wilson, anche lui apre il suo club nella propria città. Nell’area VIP del «Rodney Bingenheimer’s English Disco» all’inizio degli anni ’70 avresti potuto facilmente incontrare i Led Zeppelin, l’onnipresente Andy Warhol, i New York Dolls, i KinksAlice CooperMarc Bolan. Da Wikipedia apprendo che, nell’agosto del ’74, Iggy Pop(ospite fisso del locale) improvvisò uno spettacolo dal titolo «Murder of the Virgin», durante il quale si tagliò ripetutamente il petto con un coltello mentre il suo chitarrista, in divisa da nazista, si divertiva a frustarlo.

Ma cerchiamo di non divagare troppo; anche perché potrebbe sembrare che io non sappia dove andare a parare. [Ed in parte è proprio così].

Si diceva dell’influenza di Bingenheimer sul mercato discografico americano… 

Dunque, nell’agosto del 1976 andava in onda (bellissima espressione) per la prima volta, la trasmissione «Rodney on the ROQ» per la stazione radio KROQ-FM di Pasadena, che lancerà i migliori nomi della nascente scena punk e new wave
Il programma è stato trasmesso per 40 anni fino al giugno del 2017.

Riferendosi a quel momento storico, l’amico David Bowie dirà di lui:

Solamente Rodney Bingenheimer a Los Angeles incarnava lo zeitgeist d’oltremanica. Conosceva band e dischi di cui nemmeno io ero a conoscenza. Fu Rodney a spazzare via la melassa degli anni ’60, aprendo il varco che ci permise di ostentare il suono del futuro”.

Vista anche l’assenza pressoché totale della famiglia vera e propria, la scena rock emergente in quegli anni divenne la casa di Rodney, il suo mondo.

Nel panorama delle radio commerciali di quegli anni, ma anche di quelli a venire, Bingenheimer fu uno dei pochissimi dj ad avere completa autonomia nella selezione musicale.

Sbattendosene dello scenario musicale della west coast dominato dallo stile country-rock, nel suo programma «anti-Eagles» poteva permettersi di trasmettere (oggi si direbbe «suonare», mannaggialapu**ana*) 4 ore di solido punk a livello di GermsRunawaysSex PistolsRamonesTalking HeadsDevoB-52sSiouxsie and the Banshees e compagnia bella. E il pubblico non cambiava canale; anzi, era così influenzata che si precipitava a comprare i dischi che sentiva; come accadde ad esempio con «99 Luftballons» di Nena, diventata una hit anche negli Stati Uniti subito dopo la promozione di Rodney on the ROQ.

Influencer e promozione musicale oggi.

Ma ritorniamo al futuro: è impossibile immaginare chi potrebbe essere un Rodney Bingenheimer dei nostri giorni.
Il suo profilo professionale, oggi, potrebbe essere probabilmente definito come un influencer musicale. Il suo ruolo però non si limitava solamente a quello di selezionatore radiofonico, disc-jockey e promoter: il «sindaco» era un’originale e innovativa figura professionale al servizio delle rockstar.

Rodney and Joan Jett

Se ci limitiamo alla figura del classico dj da club, non ha tanto senso paragonare la scena odierna con quella degli anni ’70. Basti pensare ad esempio al mondo della disco music e al ruolo fondamentale che avevano i dj e i locali sulle vendite di singoli e album.

La figura del dj è cambiata radicalmente, fino ad arrivare a quella del producer influencer degli ultimi anni: fondamentalmente personaggi che, invece di promuovere un brano, un movimento o una scena musicale, promuove solo se stesso o, come si dice oggi in gergo imbruttito, fa «personal branding».

La «promozione», come veniva intesa nell’era analogica e in quella digitale pre «musica liquida», non esiste più: oggi è tutto distribuzione.

Il successo degli ascolti (oggi conteggiati come vere e proprie «vendite») è molto spesso decretato dai «curatori musicali», delle giovani figure il cui compito è quello di passare ore ad ascoltare nuova musica attraverso auricolari lo-fi (quelli più diffusi tra gli ascoltatori in streaming), per cercare di individuare chi sia degno di partecipare alla mensa delle playlist ufficiali delle piattaforme di streaming audio.

Anche i modelli di business dell’economia musicale sono radicalmente cambiati dai tempi del «Sindaco di Sunset Strip»: oggi sembra proprio che anche in campo musicale si stia concretizzando quell’«era dell’accesso» raccontata da Jeremy Rifkin quasi vent’anni fa. 

Il successo dello streaming a pagamento di Spotify o il sorpasso degli abbonamenti a Apple Music sui download da iTunes Store nei ricavi, ridefiniscono nuovamente il modello distributivo, sempre più orientato all’accesso illimitato piuttosto che al possesso della propria libreria musicale.

Radio e TV: addio ai programmi di approfondimento.

In tutto questo rimescolamento tecno-economico continuo, a mio avviso si sono via via persi quei riferimenti culturali che hanno caratterizzato la formazione musicale della mia generazione (X). È singolare come, in questo momento di estrema facilità d’accesso a dati e contenuti, siano spariti (almeno in Italia) tutti quei format e contenitori radiofonici e televisivi di approfondimento, fondamentali per chi come me è nato negli anni ’70.

canali televisivi musicali sono praticamente spariti dalla circolazione, sostituiti da quelli a bassa fedeltà di YouTube e TikTok
Il «talent show» è ormai l’unico tristissimo modello di intrattenimento televisivo esistente a livello musicale, ma non si può certamente definire un programma di approfondimento.

L’ormai defunta MTV, ai suoi esordi, è stata una realtà importantissima non solo per la promozione di generi emergenti che andavano contro lo standard e l’omologazione musicale del periodo (programmi come 120 minutes o Alternative Nation ebbero ad esempio un ruolo fondamentale nel successo della musica alternative rock degli anni ’90), ma è stata anche veicolo di un modo innovativo di comunicare.

In Italia nel 1997 l’allora Tele+ (futura Sky Italia) trasmetteva i programmi di Match Music.
Marco Castoldi (in arte Morgan) ne diventò direttore artistico qualche anno dopo, dispensando pillole video sugli argomenti musicali più disparati, dai «giri di do» alla «canzone anarchica», dal «rischio di espressione» alla «radiofonicità»: un esempio riuscito di evangelizzazione musicale, purtroppo ormai morto da tempo.

Il mezzo radiofonico, da solo, meriterebbe un capitolo a parte.
Nel 2016 è stato pubblicato un libro dal titolo: «Planet RockL’ultima rivoluzione. 1991–1994: gli anni in cui la musica cambia per sempre raccontati alla radio da un programma di culto». L’autore è Luca De Gennaro, storico conduttore di quel programma di Radio Rai (Planet Rock) che raccontava nuove prospettive e tendenze creative della musica di quegli anni. A Planet Rock seguirà Suoni e Ultrasuoni, altro mitico programma di Radio 2.

La notte radiofonica era il regno incontrastato di Rai Sterenotte: gli ascolti Rai, surclassati nelle ore diurne dalle crescenti emittenti private, di notte triplicavano. Le 5 ore circa di programmazione erano introdotte dalla mitica sigla «Viaggiando» di Roberto Colombo.
Mi ricordo che registravo su audiocassetta le puntate del mio conduttore preferito, il catanese (Catania, in quegli anni era chiamata «la Seattle italiana») Max Prestia. E come me facevano migliaia di ascoltatori.

Mi si perdoni il momento nostalgia, ma bisogna ammettere che ci sia una notevole differenza tra l’ascolto in diretta, magari con delle cuffie di un certo livello, alle due di notte, nella tua stanzetta illuminata solo dalle lucine del tuo impianto stereo (oppure in macchina mentre stai per l’appunto viaggiando…) e l’ascolto di un ca**o di podcast in streaming su Spotify o in una stanzetta virtuale di Clubhouse.

Si potrebbe chiudere il cerchio iniziale aperto con Rodney Bingenheimer, citando John Peel e le sue «Sessions» (altro mio riferimento musicale degli anni ’90): probabilmente il giornalista, dj e conduttore radiofonico più influente e seminale nella storia della musica alternative rock e punk contemporanea.

Conclusioni spicciole senza morale…

Vivevamo in un’era, quella analogica, lontana milioni di anni luce da quella attuale. Senza entrare nel merito del meglio o peggio e dell’inutile e opinabile sentimento nostalgico, mi sembra che in tutti questi anni sia stata sfruttata solamente una piccolissima parte dei potenziali vantaggi dati dal digitale. Emblematica, in tal senso, è ad esempio la fatica che sta facendo da anni il Digital Audio Broadcasting per affermarsi come standard della radiodiffusione.

Spotify ci ha messo anni per introdurre e implementare il servizio «Behind the Lyrics», sostituito solamente l’anno scorso dai testi sincronizzati con l’audio delle tracce all’interno dell’app (grazie alla collaborazione con la bolognese Musixmatch).

Anche per quanto riguarda gli aspetti culturali, la divulgazione e la spiegazione della musica, i racconti dei suoi percorsi, della storia e dei suoi valori sociali, non vedo grandi sforzi, interesse o investimenti.
E poi ci lamentiamo se i giovani ascoltano la trap, il raggaeton o il k-pop su TikTok…

… e quindi?

E quindi niente: Adesso scrivo a quelli di Match Music per candidarmi anticipatamente al ruolo di New Musical Influencer freelance con partita iva, in attesa dell’ennesimo reboot, dopo i lanci e le relative chiusure del 2013 e 2018.


* Scusa le volgarità… eventuali.

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